TEATRO
Un uomo solo. Su di una nave, arenata nel ghiaccio di un fiordo della Groenlandia. Attorno il bianco, nelle sue migliaia di sfumature. Il vento soffia, in continuazione, rigido. La temperatura sfiora i -30. Ogni suo gesto è fatica. Una lotta contro gli elementi. Ma lui è tranquillo. È il modo di vivere che ha scelto. È il suo modo per trovare tranquillità. Ha un nome ma nessuno lo usa più da tempo. Le tre persone con cui ha ancora contatti sono la sua donna, con la quale vive una relazione particolare, il fratello -un cacciatore inuit- e il loro padre. Tutti e tre vivono in un piccolo villaggio a cinque ore di marcia, al di là del fiordo, al di là dell’isola solitaria dove ha deciso d’incagliarsi, al di là della banchisa. Loro, e la piccola comunità del villaggio, lo chiamano qivittoq (un particolare spirito dal quale è meglio stare lontani).
Febbraio di quest’anno. Lei ha un problema, ha bisogno di Lui. Lo cerca, disperata. Ma la banchisa, per la prima volta dopo anni, non regge e Lui non la può raggiungere. Lei si suicida. Lui impazzisce. Mentre il mondo discute sugli effetti della crisi climatica il loro mondo si scioglie, sparisce.
Nell’Artico per cercare una storia sulla crisi climatica
La realtà è che quando una cosa è distante non è tua. Ne parli perché hai letto qualcosa. Perché lo capisci che c’è qualcosa che non va. Ma le tue mani, le tue orecchie, il tuo naso e il tuo gusto non l’hanno percepita. Tutte quelle parole, tutti che ne parlano, il chiacchiericcio continuo ti è entrato nelle vene e circola nel tuo corpo, nei tuoi pensieri. “Cazzo!”, forse è vero. Forse no. Però qualcosa di diverso c’è. Nella testa lo sai bene che una volta l’estate era estate, dicembre nevoso anno fruttuoso, se marzo butta erba aprile butta merda. Non è più così. I fiumi sono secchi. Piove grandine. Ma poi ci sono le elezioni. La guerra e la minaccia atomica. Poi ci abituiamo a tutto con uno “spritz” in mano e vendendo la casa dei nonni. Cosa altro vuoi dire con tutto ciò che è già stato detto? Io metto i piedi uno dopo l’altro. Ho sempre pensato che tutto non fosse bianco o nero. Mi hanno insegnato che per capire devo abituarmi al grigio. Che devo indossare il grigio per “unire” il mondo. E mi ci sono abituato. E non stavo bene. Un gruppo che ho amato cantava “Vieni come sei. Come eri. Come voglio che tu sia. Come un amico. Come un vecchio nemico”. E allora mi sono chiesto: fare con calma, oppure in fretta? La scelta era mia. Ho capito che potevo solo non fare tardi. E che se volevo capirci qualcosa di questo mondo che mi sta cambiando tra le mani dovevo mettermi in gioco.
L’assunto è che nell’ultimo decennio il mondo è cambiato. Morfologicamente. Geograficamente. Le montagne precipitano su se stesse e diventeranno deserti. Come possiamo immaginare che tutto questo non abbia influenze sulla palude virologica e geopolitica che stiamo vivendo? Io lo so che bastano le parole giuste per vendere la merda che si vuole agli altri e a noi stessi. Dunque ho deciso di andare a vedere con i miei occhi. Cosa accade al confine? Perché è dal confine che entrano i barbari. Qua aspettiamo a confessare, lassù non hanno tempo. Così me ne sono andato all’origine delle cose. Al Polo Nord. Per cercare una storia. E lo so che qualcuno mi dirà “Tutto quello che dici è così difficile da credere”. Ma ho una storia vera adesso. Che non è grigia. Che è bianca e nera come tutto in quel mondo a -30 gradi. Sono stato lassù. Mi sono bruciato le mani, gli occhi e un bel po’ di certezze. Non ho mai pregato ma mi sono accorto che siamo tutti in ginocchio.
Flavio Stroppini